venerdì 16 luglio 2010

Business casual


Un recente post di una fashion blogger mi ha dato lo spunto per riflettere sul tema del dress code in ambito lavorativo. La blogger, proponendo un outfit per il lavoro a queste temperature tropicali, non si chiedeva se fosse appropriato per il contesto lavorativo, ma semplicemente se le stesse bene, non aprendo dunque in quel partecipato blog il dibattito sul tema.

Un prologo è d'obbligo: il tuo primo capo ti forgia. E se il tuo primo capo era anche un autorevole capitano d'industria, dirigente della vecchia guardia confindustriale, l'imprinting dura a lungo.

Ebbene, il mio primo capo, senza mai dettar regole esplicite, ci aveva indirettamente insegnato un dress code, con la leggerezza dei suoi commenti garbati, tanto ironici quanto chiari, quando non approvava le nostre scelte. Un dress code costruito giorno per giorno, per correzione e molto spesso per sottrazione. Un dress code che mi ha reso la "bacchettona" che sono e di cui in fondo vado fiera. Perché mi fa sentire sempre a posto. Per famosa regola del "se ti chiedi se un abito sia adatto all'occasione, probabilmente non lo è" ...

Negli anni novanta, quando spopolavano i sabot, il capo ci aveva pregate di non presentarci a lavoro in ciabatte; aveva apostrofato i pinocchietti di lino della mia collega chiamandoli pigiama. Di fronte alla mia passione per alamari e shantung, mi raccomandò di non prendermi la SARS nell'est asiatico.

Quando il caldo si faceva sentire precisava che la stoffa si assottigilia, non si riduce. D'altro canto, come dargli torto ? Come fanno i signori uomini ad agosto ?

Di quel dress code, dopo oltre un decennio, rimane quasi tutto. Ho sdoganato solo jeans e sandali. Che dire, sarò anche vecchia dentro, ma amo le donne di oggi con il buon gusto di ieri.
Nella foto: il dress code lavorativo liberamente interpretato da tre esponenti di spicco della Lega Nord



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